Laura Preite/http://cinemabendato.com

a cura di Laura Preite (voto 7,5/10)

Daniele Segre torna ad osservare l’Italia con l’occhio di una telecamera e la gelida lente dell’intelligenza. Dopo Morire di Lavoro del 2008, Sic Fiat Italia è un altro documentario che meriterebbe una distribuzione massiccia, ma a detta dello stesso regista, ospite del XIII Festival del Cinema Europeo di Lecce, neanche Rai Tre è interessata a farsene carico. Silurato da tutte le reti televisive, pubbliche e private, perché forse personaggio troppo scomodo per un Paese che non sa più dove comprare tappeti per nascondere polveri, detriti e immondizia.

Come dichiarato dallo stesso Segre, il documentario non è il tentativo poco ambizioso di raccontare i due giorni del referendum del 13 e 14 gennaio 2011. Il risultato sarebbe stato una semplice e banale inchiesta giornalistica ricca di interviste e povera di riflessione. In 54’ invece, si ha la possibilità di catapultarsi negli ultimi 20 del mondo del lavoro italiano, attraverso altri suoi lavori come ad esempio “Partitura per volti e voci. Viaggio tra i delegati della CGIL”(1991). Voci, volti, interviste, urla, dignità e coraggio. Un percorso tra le rivendicazioni sindacali, le lotte dei singoli che cercavano di appropriarsi di spazi, di informarsi e pretendere nuovi diritti, l’intellighenzia che non guardava inerme lo spettacolo del tira e molla, ma assumeva un posizionamento e almeno, costruiva barricate. Le scene in bianco e nero, si sovrappongono e si alternano alle scene a colori, a quel parlare misto, a quella generazione che sentenzia in torinese, ma nella rabbia l’accento scivola a sud, tra Calabria, Sicilia, Puglia e Campania. Non solo Torino. La Fiat è l’Italia intera, tutta lì, concentrata in quei capannoni che la possono raccontare. Singoli percorsi di vita che potrebbero scrivere storia. Da un punto di vista strettamente tecnico, Segre gioca con i colori della pellicola e con le sequenze. Tutto fa pensare al contrasto, al confronto- tra un ieri non troppo lontano ed un oggi che soffre- alla protesta intaccata ormai dal germe della debolezza o forse della remissività, che è sicuramente peggio.

Il documentario non è affatto un ritaglio obiettivo. Ci sono giudizi, critiche, una polemica educata. Che il referendum proposto dai vertici della Fiat ai lavoratori di Mirafiore sia stato un arrogante ricatto che i media sono riusciti a rivestire di legittimità, è un fatto palese. Ma poi la polemica, cercata ed espressa, si ritira e ci lascia guardare questo lago stagnate che è il nostro Paese, dove tutto è accettato ed accettabile. Dove tutto succede e viene risucchiato nel tempo, dove i soprusi sono presentati come misure cautelari in vista di una crisi economica che ci sovrasta, dove gente in doppiopetto con sguardo caritatevole e secchione, chiede sacrifici a chi ha dolore alle mani, e quest’ultimo ha perso la voglia di reagire. Al massimo sputa di fianco quando veramente è troppo.

Se non guardiamo questi documentari, noi membri dell’esercito del post-acne e del pre-problema-di-prostata o pre-menopausa, che entriamo nel supermercato del lavoro chiedendoci quale prodotto-ricatto conviene di più per evitare almeno il suicidio da depressione e inattività prolungata (mi scuso per i toni solo perché la lista di suicidi che compare ultimamente sui giornali è l’unica notizia di cronaca che leggo, odiando profondamente i quotidiani. La leggo per continuare ad arrabbiarmi), continueremo ad abituarci a questa latente crudeltà. Per smuovere anche negli stagisti non pagati e passionari (questa è per pochi e per chi conosce i miei ultimi giorni in cui ho tentato goffamente di vestire i panni di Giovanna D’Arco e mi sono ritrovata senza un ridicolo attestato e con un tailleur nell’armadio che mi guarda con l’aria di sfida) il pensiero che il lavoro non è un favore, non è una rivisitazione dello schiavismo in chiave post-moderna, ma è l’unico modo che abbiamo per continuare a sentirci utili ed ogni tanto anche soddisfatti.